HR del futuro, ITAS punta su competenze, inclusione e welfare: l’intervista a Stefano Veronesi

ITAS investe su formazione, inclusione e benessere per affrontare le sfide HR future e attrarre i talenti con un nuovo approccio culturale.

Nel panorama in costante evoluzione del lavoro, l’area delle Risorse Umane si trova oggi al centro di sfide cruciali che non riguardano solo la gestione del personale, ma anche l’adattamento culturale e strategico delle organizzazioni alle trasformazioni tecnologiche e sociali in atto.

Ne abbiamo parlato con Stefano Veronesi, HR Director del Gruppo ITAS, storica realtà mutualistica italiana leader nel settore assicurativo, da sempre attenta al valore delle persone all’interno dell’azienda. In questa intervista, Veronesi offre una visione lucida e concreta su come il mondo del lavoro stia cambiando e su cosa le imprese debbano fare per guidare il cambiamento in modo sostenibile e inclusivo.

1 Stefano Veronesi, HR Director del Gruppo ITAS, leader nel settore delle polizze assicurative per salute, lavoro e molto altro. Secondo lei quali sono le sfide HR del futuro e cosa sta facendo ITAS per realizzarle?

Il futuro ci offre la grande opportunità di far evolvere le competenze delle nostre persone e i modelli organizzativi aziendali verso traguardi che, senza l’avvento delle nuove tecnologie, probabilmente non raggiungeremmo con le stesse tempistiche.

Le sfide HR sono rappresentate sostanzialmente dalla capacità di coinvolgere le persone nei processi di metabolizzazione di questo cambiamento affinché la paura e la resistenza iniziali si trasformino in ingaggio con l’adesione completa al nuovo contesto e, in qualche caso, in un nuovo modo di vivere l’azienda e di interpretare il proprio ruolo fatto di competenze, capacità e strumenti che già oggi fanno parte della vita dei lavoratori.

Sarà necessario essere concreti: le aziende dovranno essere generose nell’attivare programmi di formazione e sviluppo per non lasciare indietro nessuno e i lavoratori dovranno trovare il desiderio di superare, in primis, la fatica psicologica che anticipa qualsiasi importante cambiamento. 

Vedo una grande responsabilità in capo al management delle aziende: a fare la differenza sarà la visione strategica dedicata all’evoluzione culturale e al riassetto organizzativo.

La brand reputation e gli inevitabili riflessi sui risultati di business saranno fortemente influenzati dalle best practice protagoniste del mercato.

Come sempre la storia ci insegna qualcosa e ci aiuta a fare delle scelte: non è la prima volta che il mondo del lavoro affronta una “rivoluzione industriale”. Molti manager che oggi sono responsabili di risorse e risultati, hanno vissuto, ad esempio, l’avvento di internet, il cambio di velocità degli anni novanta e duemila, la nascita delle organizzazioni digitali e l’avvento dello smart working: l’approccio culturale e operativo dovrà per larga parte ripetersi.

Per accogliere ed integrare al meglio l’avvento dell’intelligenza artificiale, ad esempio, sarà importante costruire un nuovo paradigma che porti le persone, in alcune situazioni, “dal saper fare al saper far fare”.

ITAS vuole prepararsi a intraprendere questo percorso sapendo che non vorrà rinunciare al valore e al potenziale delle proprie persone e per tale ragione avvierà un programma di evoluzione culturale per favorire la comprensione del nuovo mondo lavorativo e implementerà un vasto programma formativo a supporto del mindset e delle nuove competenze. Parallelamente è già stato avviato un piano di inserimento di personale con competenze specifiche da affiancare a quelle presenti nei talenti maturi così da favorire un incontro generazionale complementare e proficuo.

2 Cosa contribuisce ad aumentare il benessere dei dipendenti e cosa dovrebbero fare le aziende per “non perdere” le risorse valide?

Credo che la chiave vincente per continuare a farsi scegliere dai talenti già presenti in azienda e risultare più attrattivi verso i talenti ancora da assumere sia la disponibilità di politiche di welfare con cui risolvere o contenere la complessità della nostra vita anche nella sua forma privata.

Anni fa, la famosa “War of Talent”, si vinceva con il brand che creava il senso di appartenenza e il desiderio di farne parte.

Oggi credo che il brand sia ancora importante per attrarre e mantenere le risorse più valide ma solo nella misura in cui esso rappresenti la somma dei valori e delle politiche che lo edificano e lo identificano. Oggi, soprattutto le nuove generazioni, vedono nel “proud to be” la risposta alle loro aspettative, al modo di vivere dentro e fuori l’azienda, non solo l’appartenenza a un brand più o meno conosciuto o a un’intuizione commerciale (seppur foriera di benefici per l’azienda stessa e per il personale).  

Un ambiente di lavoro positivo e inclusivo, in cui si possa stabilire il giusto equilibrio tra vita professionale e privata e una cultura aziendale favorevole all’incontro generazionale, è al centro dei desideri di qualsiasi talento.

Per non perdere le risorse valide occorre quindi lavorare sul valore percepito del rapporto di lavoro provando a fare leva su ciò che più risponde alle esigenze dei talenti non limitandosi solo al rifugio retributivo, sempre apprezzato, ma non sempre in cima alle aspettative di tutti.

Le persone non sono tutte uguali: cambiano le generazioni e le aspettative. Oggi ci troviamo 3-4 cluster diversi di popolazione aziendale che vivono in azienda nello stesso momento e quindi diventa necessario saper coniugare le aspettative del giovane talento con le esigenze del talento maturo (sempre più rivalutato negli ultimi anni).

Come Mutua assicuratrice troviamo nei nostri valori e nella nostra missione la centralità delle persone, siano esse soci assicurati o dipendenti: questa scelta orienta fortemente le politiche di business e di gestione del nostro personale verso un benessere complessivo.

3 Parliamo ora di diversità e inclusione, come migliorare la cultura aziendale in questo senso?

Facendo qualcosa di concreto e smettendo di parlarne solo “in punta di principio” o solo perché l’attualità lo richiede.

E’ noto come qualsiasi cambiamento all’interno di un’azienda possa essere di successo o meno a seconda dell’esempio pratico che viene offerto soprattutto “dall’alto”.

Partirei dalla necessità di applicare una leadership inclusiva, che si possa apprezzare quotidianamente e da cui trarre delle politiche aziendali chiare.

Intraprendere il percorso verso la certificazione sulla parità di genere è sicuramente un manifesto inequivocabile: le aziende che si certificano testimoniano il desiderio di comunicare internamente ed esternamente quanto siano aperte alla valorizzazione delle diversità.

ITAS ha intrapreso il percorso di certificazione qualche mese fa e, benché il progetto ci vede dover attendere i tempi consoni, già si nota l’attenzione delle nostre persone verso temi che prima erano vissuti in svariati modi a seconda della sensibilità individuale.

Troviamo i riflessi di questo miglioramento culturale nel recente rinnovo del contratto integrativo, nella composizione dei nostri comitati e del nostro Executive Board.

Giovani e giovanissimi, uomini e donne, partecipano alla vita dell’azienda anche con ampia esposizione e completano il capitale umano rappresentato dalle figure più tradizionalmente presenti nell’organizzazione.

Altre forme di diversità non sono mai state per noi un argomento di discussione.

4 Ultima, ma non per importanza, le porgo una domanda sulla settimana corta che è stata introdotta recentemente in Spagna. Cosa ne pensa e a che punto è l’Italia? 

Non abbiamo ancora feedback particolarmente attendibili rispetto agli effetti prodotti da questa rivisitazione dell’orario di lavoro.

Sulla carta, la settimana corta, risponderebbe all’opportunità di aumento del work-life balance anche se, a differenza dello smart working, non è scontato che possa essere trasversalmente gradita poiché ci si troverebbe con un forte disallineamento rispetto a tutto ciò che oggi è impostato sulla tradizionale settimana lavorativa.

E’ difficile immaginare che per settimana corta si voglia veramente intendere un intero giorno di lavoro in meno a parità di condizioni generali e retributive; è anche molto probabile che lavorare più ore al giorno non sia l’ambizione di tutti i lavoratori.

Qualche considerazione bisognerebbe farla anche sulla qualità produttività ottenibile da una giornata di lavoro molto lunga.

Probabilmente la settimana corta troverebbe il massimo della sua efficacia solo se affiancata a un modello organizzativo agile, costruito solo su obiettivi e libero dalla rilevazione oraria. Un’ulteriore riflessione andrebbe rivolta alla differenza di applicabilità tra grande azienda e PMI di cui il nostro Paese è estremamente ricco.

L’Italia non ha ancora avviato un vero e proprio disegno organico sull’argomento: stiamo ancora assistendo a qualche ripensamento sullo smart working laddove è stato introdotto con ampia generosità sia in Italia che all’estero. Credo quindi che i tempi per un confronto serio tra le parti non siano vicinissimi nonostante ci sia già stata qualche iniziativa individuale collegata alla visione dell’impresa e all’aspettativa di poter arrivare per primi su un tema ritenuto altamente differenziante per il futuro.

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