Great Resignation “tiepida”: il fenomeno (al momento) non sfonda in Italia

Un fenomeno esploso in USA e UK e che si pensa sia già arrivato in Europa. La Great Resignation, nome con cui si indicano le dimissioni “in massa” da parte di lavoratori, per lo più giovani, in cerca di condizioni salariali e lavorative migliori, si sta espandendo a macchia d’olio, provocando dei veri e propri buchi in alcuni settori. La tendenza è in crescita anche in Italia, anche se più contenuta rispetto a Stati Uniti e Gran Bretagna. Qual è la vera portata in Italia? Cosa potrebbero comportare queste “grandi dimissioni” nel mercato del lavoro?

Great Resignation contenuta rispetto ad altri paesi

Prendiamo in considerazione due anni, il 2019 e il 2021, che s’interpongono fra quello di inizio pandemia (2020). Secondo lo studio condotto da Renato Brunetta, Ministro della Pubblica Amministrazione, e Michele Tiraboschi, dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, già prima che il Covid – 19 cominciasse a circolare per il mondo, obbligando i paesi a misure restrittive pesantissime, c’erano state centinaia di migliaia di dimissioni volontarie. Questo trend è sprofondato a partire da febbraio 2020 e per tutta la durata dell’intero anno. Le dimissioni, in realtà, erano solo “rimandate”, in attesa di un momento più favorevole. Infatti, nel 2021 il numero di lavoratori che hanno lasciato il proprio posto è di 205mila unità in più. Si tratta soprattutto di giovani da poco inseriti nel contesto lavorativo. Le rivendicazioni sono: ambienti più armonici, contratti più stabili e salari adeguati al costo della vita.

Nonostante l’aumento esponenziale delle dimissioni, in Italia la Great Resignation non sembra, al momento, avere le stesse proporzioni di quanto sta avvenendo in America e nel Regno Unito. Infatti, la Relazione della Banca d’Italia riporta che l’incremento significativo delle dimissioni nel 2021 presenti caratteristiche diversi dai paesi anglosassoni, e di come abbia compensato il forte calo dell’anno precedente.

Dando uno sguardo al mondo imprenditoriale, il numero di aziende che segnalano difficoltà nel trovare manodopera è inferiore alla media europea (17% contro il 22). Il settore più colpito è quello edilizio, dove la quota di dimissioni è cresciuta oltre il 50%. Nella ristorazione e nel turismo, invece, la realtà dei fatti è in controtendenza rispetto alle rappresentazioni create dai media. Infatti, benché la ricerca di personale, soprattutto di lavoratori stagionali, sia un problema strutturale, accentuato dalla pandemia, lo studio mostra che le dimissioni non sono aumentate, ma al contrario segnano un -2% rispetto al 2020.

Fuga dal lavoro o narrazione emotiva?

L’argomento secondo cui la Great Resignation, all’estero come in Italia, sia un atto di ribellione a un sistema che non è in grado di andare incontro alle nuove esigenze dei lavoratori giovani, è in parte smentito dal fatto che, per molte persone, i posti di lavoro da cui si sono dimessi erano visti come impieghi transitori, che hanno abbandonato quando ne trovavano altri più in linea col proprio profilo professionale e le proprie aspirazioni.

La Great Resignation, insomma, esce ridimensionata dal rapporto della Banca d’Italia. Il confronto tra le diverse generazioni di lavoratori mette in luce comportamenti assai diversi. Infatti, secondo le rivelazioni dell’Istituto, i lavoratori più anziani hanno trovato nuove occupazioni negli stessi settori, a differenza dei giovani per i quali la poca esperienza pesa sulla possibilità di essere riassunti in breve tempo, e sono più propensi a cambiare ambito, incentivati dall’età ancora sognante e dalla possibilità di trovare un’occupazione migliore.

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