Salario minimo, il pezzo di un puzzle più complesso

Francesco Amendolito, Amendolito & Associati

La scorsa settimana la Presidente della Commissione Europea ha comunicato il raggiungimento dell’accordo sulla direttiva europea in materia di salario minimo, dopo un’intensa notte di trattative. Al contrario delle comuni aspettative, il testo non prevede l’obbligo per gli Stati Membri di dotarsi di un salario minimo legale, ma punta ad istituire un quadro per fissare dei minimi adeguati ed equi, rispettando le peculiarità di ciascuno dei 27. Anche perché, come è noto, l’art. 153, comma 5 del TFUE stabilisce che l’UE non ha competenza legislativa in materia di retribuzione, pertanto stante tale base legislativa l’unica cosa concretamente realizzabile da parte degli organi legislativi comunitari era un manifesto politico indirizzato a sottolineare l’importanza dell’adeguamento retributivo ed a indicare i criteri da utilizzare in questo adeguamento. La bozza prevede una soluzione diversa a seconda della struttura legislativa già esistente in ogni Stato Membro. Per quelli dotati di un salario minimo legale, la direttiva prevede un obbligo di garantire che la determinazione del minimo retributivo sia basata su criteri stabiliti per promuovere l’adeguatezza al fine di conseguire condizioni di vita e di lavoro dignitose, coesione sociale e una convergenza verso l’alto. Criteri quali il potere d’acquisto e l’andamento della produttività. Al contrario, per quei Paesi come l’Italia in cui pur non essendo previsto un salario minimo legale, c’è una copertura della contrattazione collettiva superiore al 70%, la direttiva si limita ad incentivare lo sviluppo e il rafforzamento della capacità delle parti sociali di partecipare alla contrattazione collettiva sulla determinazione dei salari a livello settoriale o intersettoriale ed incoraggiare negoziazioni costruttive, significative e informate sui salari tra le parti sociali. La bozza non prevede specifici criteri che la contrattazione debba seguire per l’adeguamento dei salari. Ciò posto, l’impatto che la stessa direttiva avrà in Italia sarà minimo. Non imponendo l’obbligo di prevedere il salario minimo legale e tantomeno precisando i criteri che la contrattazione collettiva dovrebbe seguire per la scelta dei minimi retributivi, la direttiva non fa altro che istituire un sistema che in Italia è già esistente. Infatti, le soglie retributive sono da anni ormai appannaggio della contrattazione settoriale nazionale.

Il problema è rappresentato da quei settori ovvero quelle imprese alle quali non si applica la contrattazione collettiva. Tuttavia, a parere di chi scrive, c’è un’importanza strategica nell’aver trovato un accordo sulla direttiva: riportare sul tavolo la questione dei salari minimi e della lotta al dumping sociale. Come ha affermato il ministro Orlando, infatti, questa bozza è una spinta affinché si riesca ad attuare un intervento sul lavoro povero, primo passo di un pacchetto di iniziative volto all’innalzamento dei salari, che dovranno passere anche da un taglio del cuneo fiscale. Le Raccomandazioni all’Italia ci ricordano che il mercato del lavoro conosce sofferenze di vecchia data. Il salario minimo è, pertanto, un pezzo di un puzzle più complicato che necessita di un immediato intervento del legislatore sia per combattere la povertà sia per concedere alle aziende strumenti a supporto della loro produttività. È notorio, infatti, che il benessere dei lavoratori e la produttività dell’impresa siano circolarmente correlati tra loro.

A cura di Francesco Amendolito, Amendolito & Associati

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