HR Forum – La disciplina del lavoro nell’era dello smart working

A causa dell’emergenza pandemica, quella della riorganizzazione del lavoro è stata, ed è da diversi mesi, una questione che molti professionisti e aziende si sono ritrovati ad affrontare. Il lockdown ha imposto repentini cambiamenti e tutti hanno iniziato ad utilizzare (e non sempre nella maniera più corretta) il termine di smart working. Sì, perché questo si basa su una concezione di lavoro che non riguarda solamente il lavorare da casa.

La vera definizione di smart working

Lo smart working – nella accezione fatta propria dalla sociologia del lavoro – si riferisce ad una diversa organizzazione del lavoro subordinato. Non significa soltanto che il lavoro si svolge da casa ma implica un ripensamento intelligente della prestazione, che diventa libera dai vincoli convenzionali riguardo agli spazi e ai tempi. Chi lavora con questa nuova modalità, infatti, non è solo un freelance o un lavoratore da remoto; la figura dello smart worker è il risultato di una nuova filosofia manageriale, basata sulla fiducia nella sua capacità e di organizzare il tempo, gli spazi e gli strumenti per le sue mansioni. E’ un concetto che nasce dall’esigenza di lavorare in maniera più produttiva e, allo stesso tempo, conciliare la sfera della vita privata e quella lavorativa.

C’è però ancora molta confusione tra telelavoro e smart working. Queste due forme si differenziano profondamente in termini di flessibilità e autonomia. Se nel primo caso, quello del telelavoro, le regole riguardanti orari e strumenti sono rigide e rispecchiano la medesima organizzazione presente sul luogo di lavoro, Lo smart working è – o almeno dovrebbe essere – una vera e propria forma contrattuale che prevede che il lavoratore scelga in maniera flessibile e autonoma i luoghi e gli orari di lavoro.

Il parere dell’esperto

Sull’argomento abbiamo raccolto il parere dell’avvocato Carlo Fossati, Senior Partner dello Studio Legale Ichino Brugnatelli e Associati, intervenuto come main speaker alla 7° edizione dell’HR Forum del gruppo Le Fonti, organizzato lo scorso 3 maggio presso Palazzo Mezzanotte, sede di Borsa Italiana.

“Dal punto di vista giuslavoristico, possiamo dire che in Italia non c’è ancora lo smart working. Quello che chiamiamo smart working – e che il nostro ordinamento chiama “lavoro agile” – è, in realtà, semplicemente lavoro da remoto, che ha iniziato ad affacciarsi sul panorama dal 2017 (ben prima della pandemia) presentandosi tra l’altro come un’eccezione rispetto alle consuete modalità lavorative. Ma il vero smart working non è legato solo alla dimensione geografica (da dove svolgo la prestazione), è in realtà un tema di flessibilità della prestazione, la possibilità di avere un lavoro misurato per obiettivi e non per ore lavorate, svincolandosi dalla rigidità degli orari. Questo consentirebbe di aumentare il livello di engagement del lavoratore a differenza del remote working che, alla fine, diventa alienante e non dà i vantaggi di una gestione realmente flessibile del lavoro. Quindi, il problema fondamentale non è solo da dove lavoro ma, soprattutto, se ho la possibilità di lavorare responsabilizzato per obiettivi e svincolato dalle rigidità tipiche del lavoro subordinato, a partire dall’orario.

Rispetto alla questione, è necessario fare un passo indietro dal punto di vista storico. Il vero problema non è, quindi, solo la disciplina dello smart working del 2017 (che comunque resta una criticità, ponendo soltanto un discrimen geografico) ma la disciplina del lavoro subordinato che è soggetto a norme varate nel 1942 che non sono mai cambiate. E’ evidente che ci riferiamo a un’epoca storica lontana anni luce rispetto alla sociologia del lavoro di oggi, è impossibile pensare che quei paradigmi possano ancora andare bene. Quindi, se noi andiamo oggi a riformare la disciplina dello smart working del 2017 senza toccare i paradigmi fondanti del nostro sistema giuslavoristico non andiamo da nessuna parte”.   

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